Aldo Cervato
Scorrendo l’autobiografia di Cervato, non stupisce la predilezione di questo artista per il viaggio dell’anima. Quell’ anima nutrita nel paradiso d’arte delle grandi capitali italiane ed europee, dove la Storia vive la grande cultura rispettosa dell’ ispirazione quotidiana o, nel fremito ‘evergreen’ di New York, il largo respiro delle avenues, quando lo sguardo, stanco di ‘madding crowd’ riesce comunque ad isolarsi e a perdersi nell’intima visione di un sogno o, ancora, nel raccoglimento meditativo di un remoto Giappone, dove l’obiettivo di Cervato indugia, in romantico pellegrinaggio, a ritrarre lo splendore architettonico di innumerevoli templi, palazzi e giardini, cinta dell’antica Kyoto, perla di saggezza, isola felice e tuttora gelosamente preservata contro il disfacimento dell’incuria umana ….
Cogliendo quest’ultimo passaggio, dalla Venezia nipponica, il fil rouge dell’immaginario non può che approdare alla Venezia dell’amore multiforme. La Venezia della musica e della letteratura, culla museale per eccellenza, con i fastosi edifici ultrasecolari affacciati sul Canal Grande, e, ancora la Venezia immota e persa nei suoi rii, la Venezia riposta e negletta dalle rotte turistiche, dove gli antichi mestieri sopravvivono immutati ed immutabili, grazie alla tenacia dei pochi abitanti superstiti. Del fascino sottile ed eterno di questa meteora lucente che si ostina a resistere agli assalti del Tempo, Aldo Cervato ha immortalata la stessa geometrica sobrietà dipinta dai grandi vedutisti, privilegiandone la medesima atmosfera setosa, l’impalpabile, avvolgente Silenzio. Quel silenzio grigio dall’esterno, nella bruma o nella caligine estiva che, a dispetto dell’apparenza, inonda l’anima di luce. Sono immagini straordinariamente evocative, scaturite dal fremito di una passione dirompente che libera l’obiettivo in un merletto di seduzioni. Di quello spazio vuoto, puro, Cervato ha saputo cogliere l’Essenza: una verticalità immanente retta sul precipizio delle acque placide e minacciose, al contempo… Della Roma autocelebrativa, con i grandi spazi monumentali che si aprono nell’ottica rigorosa e abbacinante di piazze e nel passo notturno per antiche vie lastricate (ricordo delle muse inquiete e delle architetture di Balla, Boccioni, De Chirico, financo Severini), Cervato non esita a sfogliare, inoltre, un taccuino di impressioni visive di ben più lirica intimità, allineando l’incedere stagionale alle fasi della vita. Così, in inverno, la solitaria passeggiata di un uomo nel parco sfuoca in un surrealistico straniamento, in quel senso d’abbandono che resta il frutto di una desolazione inascoltata (Magritte e Man Ray).
Parigi. E’ la città più ‘vissuta’ da Aldo che non esita a recarvisi ad ogni cambio di stagione per cogliere i mutamenti della luce ad ogni ora del giorno. Parigi, scissa nei suoi poli dialettici (Walter Benjamin), il cui centro, a misura d’uomo (forse l’unico nel perimetro artistico internazionale) resta percorribile in una sera, entrando nel sogno del passante: con ciascuna lastra di pietra, con ogni insegna di negozio, ogni gradino ed ogni androne (una serie di scatti in b/n che ricordano le tappe itineranti dell’immensa raccolta di documents pour artistes di Atget e Doisneau). Camminando senza meta apparente, con sola guida il battito del cuore, Aldo, riedita il cliché letterario del flàneur , girellone in questo “paesaggio di vera vita” tanto amato da Hoffmanstahl e Breton…. Quegli angoli che sfociano in un passage, fitto di finestre in fiore e le tendine di pizzo, sono l’anima di una perfetta intimità di conoscenza proustiana. E il simbolo della grandeur parigina, dopo quelle allées battute dalla pioggia e dal sole e l’eterna memoria dei boulevards cantati da Montand, resta, oltre Piramide del Louvre,
la Tour Eiffel. Quella mole di acciaio, a cavallo di due secoli, non teme il futuro e si presta all’indugio di eleggere a proprio domicilio il numero – il bagno di folla – il fluttuante e il mobile – il corteggiarsi in volo di due bianchi colombi -, il fuggevole e l’infinito – l’impressione della mole riflessa leggiadra in una pozzanghera - . Fotografia in segno dell’arte, sfiorarsi di proiezioni ortogonali, di spazi infiniti che interagiscono tra esterno ed interno, in un’ideale sovrapposizione.
Cervato predilige lavorare negli spazi aperti, di cui Londra è regina e madre d’ispirazione. Queste immagini sono lo sguardo sul passaggio epocale, dove l’eco nostalgica apre all’ammirato stupore e alla fremente attesa di nuovi scenari di identificazione. Gli shot appartengono a una diversificata tipologia: l’interesse nei confronti della natura, dei monumenti, verso la performance e, infine, per l’architettura.
Natura: lo sguardo è concentrato puntando verso una realtà ben attuale ma molto filtrata dai grigi e dagli scuri che si trasformano in persone...Che camminano o riposano…Oppure la fotocamera si rivolge ai parchi e ai suoi contenuti. Si colgono sostanzialmente rimandi al cinema di Vincente Minnelli ma essenzialmente di Woody Allen, autori geniali e coadiuvati sul set da grandissimi fotografi – da Gordon Willis (Manhattan, Stardust Memories, La Rosa Purpurea) a Carlo di Palma (Settembre, Ombre e Nebbie) al mago Sven Nykvist…Sulla loro traccia, Cervato regala alla fotografia il fascino del racconto, scandendone la sequenzialità emozionale nell’incedere dei personaggi. Sono ravvisabili quelle ‘vibrazioni dell’anima’ tanto amate da Alfred Stieglitz, padre della fotografia artistica, e conquistate da Aldo, come già fecero i pittorialisti europei.
Monumenti: restano nel portfolio di molti fotografi: l’obiettivo di Cervato riflette una classica, incisiva specularità.
Performance: la presenza fisica, l’agilità ludica, il graffiante dominio del campo, sono le interessanti notazioni nei ritratti di alcuni performers.
Architetture: a parer mio è la tipologia più importante e rimanda in netta misura ai plastici dei progetti degli architetti alla moda. Lo scatto ritrae grandi spazi (in particolare musei) chiusi, con pochi passanti, ciò che basta a rendere realistico lo sguardo. Il bianco è il colore che predomina con giraffate di nero. Sembra che la camera voglia volare verso il galattico ma invece resta ben salda a contemplare il disegno dell’architettura.
Significativi gli scatti per “Battersea Power Station” e sbalorditiva la somiglianza con le immagini di Erich Angenendt, autore di straordinari scenari industriali nei primi decenni del Novecento.
Caterina Berardi